Paesaggio come opera d’arte
Negli anni Settanta del 900 in Italia appare un’opera all’epoca poco notata, che per la prima volta nella nostra cultura affronta il tema del paesaggio dl punto di vista filosofico Il paesaggio e l’estetica di Rosario Assunto. Un’opera, all’epoca “fuori moda”.
Assunto cerca una definizione filosofica di paesaggio e parte dal fatto che anzitutto sicuramente possiamo affermare che il paesaggio è spazio. Tuttavia non tutto lo spazio è paesaggio. Procedendo per esclusione possiamo escludere lo spazio chiuso, un interno infatti è spazio, ma non è paesaggio, ed escludiamo anche lo spazio illimitato (il cielo non è paesaggio). Dunque il paesaggio è uno spazio aperto. Uno spazio limitato come gli spazi chiusi, ma non finito. A differenza degli spazi chiusi ha sopra di sé il cielo, cioè lo spazio potenzialmente illimitato se si eleva il punto di vista.
Il paesaggio secondo Assunto è spazio limitato, ma non finito, aperto all’infinito pur nei suoi limiti fisici. In questo senso si costituisce come rappresentazione dell’infinito nel finito. Esso appare nella pittura fiamminga all’inizio del XVI secolo, in primo luogo attraverso la tecnica della finestra, che consente di bucare i fondali dorati medievali dando profondità alla scena: altri diranno che il tal modo il paesaggio viene laicizzato, perché reso indipendente dalla scena religiosa protagonista del dipinto e unificato perché si organizza autonomamente intorno a un centro.
Il paesaggio è un’unità specificamente limitata dunque ma fornita di individualità caratteristica, ben visibile nella pittura, soprattutto nordica, radicata nello sguardo dell’osservatore, che ne definisce la dimensione estetica.
Assunto parla di un’unità di stile che dà forma al paesaggio, sia urbano che naturale, riconoscibile non tanto in base a semplici proporzioni geometriche, che sono al contrario mutevoli, ma alla specifica combinazione di forme che danno luogo a un intero caratteristico, analogo all’opera d’arte e ad essa associato nella sua origine.
Non è disponibile tuttavia un “canone” estetico definito e definitivo, come al contrario nella scultura antica o nel ritratto rinascimentale; si tratta di rinvenire, di volta in volta, gli elementi che qualificano e individualizzano lo spazio rendendolo metaspazio.
Gli esempi sono di tipo letterario: non solo le Marche di Leopardi e il senso dell’infinito che nasce a partire da una veduta limitata, ma anche la Napoli di Taine in cui il quartiere di Chiaia «compare a un tempo come parte della città e del paesaggio extraurbano” , la Torino di Nietzsche con le strade che sembrano portare diritte verso le Alpi, la Heidelberg di Hölderlin con la sua rocca, oltre che le Alpi di Rousseau e di Haller.
In esse avviene quell’incontro tra città e paesaggio che viene definito come «metaspaziale» in quanto i due elementi si qualificano a vicenda. La città comunica col paesaggio e il paesaggio con la città, i due termini non si escludono ma si arricchiscono rendendo possibile quella che Assunto chiama metaspazialità. Il paesaggio è l’infinito della città, il completarsi della città in un’realtà dalla quale la città riceve un senso che la oltrepassa, che la colloca al centro di un orizzonte più vasto, potenzialmente illimitato. Ma anche la città è l’infinito del paesaggio al quale conferisce valore, perché anche la presenza della città concorre a fare dello spazio un paesaggio.
Sarebbe altrettanto bello il golfo di Napoli senza Napoli?
O la costa delle Cinque terre senza i paesi che vi compaiono?
La città nel paesaggio attesta l’infinito del paesaggio, il quale a sua volta è l’infinito della città, nella quale esso non finisce ma dalla quale esso prende valore.
La continuità del passaggio dall’una all’altro, tipica del paesaggio italiano, è indicata usando il linguaggio cinematografico, come «dissolvenza incrociata» ed è spiegata in base alla teoria delle petites perceptions di Leibniz, cioè a passaggi impercettibili in cui dalla campagna si passa alla città in modo continuo e senza brusche interruzioni, anche nel caso, apparentemente opposto della città murata medievale, in cui secondo Assunto «non si consuma l’esclusione reciproca di due finitezze, ma due infiniti passano l’uno nell’altro».
Questa continuità viene bruscamente interrotta dal sorgere delle periferie postbelliche, costruite secondo principi che eludono o negano qualsiasi criterio estetico e riconducono seccamente l’individualità qualitativa del paesaggio all’uniformità del territorio. Se la dimensione quantitativa prevale, sul territorio è possibile tracciare linee ad arbitrio, incuranti della metaspazialità, o anche del «carattere epifanico» del paesaggio, che esprime un’idea, un centro intorno a cui tutto è organizzato e che lo rende individuale. L’anti-platonismo e l’anti-metafisicità della modernità si presentano sotto l’aspetto del “meno della vita”, visibile nel rifiuto, nel relitto urbano che respinge da sé il “più della vita”, lo spazio qualificato della natura e della città.
Costitutiva della metaspazialità è la dimensione temporale, che nella distinzione tra temporalità e temporaneità attesta o nega la continuità tra il presente e il tempo in generale. La temporalità per Assunto è l’attimo che si fonda sull’anticipazione del futuro e sulla memoria del passato, condensando in sé selettivamente nell’attualità spaziale del presente la virtualità e la memoria. Il paesaggio è l’immagine spaziale del tempo, ma esso è negato se la temporaneità diviene simultaneità, se cioè spezza la durata e l’irreversibilità del tempo per fondarsi sul presente discreto e atomizzato.
Il luogo della civiltà industriale, fondato sul temporaneità negatrice della memoria e della continuità, appare in quest’ottica irrimediabilmente un non paesaggio, un locus horridus privo di qualsiasi rilevanza estetica, e assurge a minaccia dell’esteticità residuale del paesaggio naturale dell’occidente.
Di Paola Giacomoni
Tratto: https://www.ambientetrentino.it/paesaggio-come-opera-darte/